Si parla in un’analisi di recente condotta da un noto leader internazionale di settore, di un 2050 caratterizzato da robot perfettamente dotati di capacità cognitive e reali percezioni sensoriali, i quali saranno in grado di sostituire compiutamente l’uomo nelle attività tecnico-professionali di più elevato grado di perizia e sforzo intellettivo di diligenza.
Francamente, al di là dell’opinabilità della previsione sul piano strettamente cronologico – ndr., a mio avviso, infatti, già esisterebbero fenomeni, o meglio processi robotici, specie nell’ambito della virtualità, che presentano indiscutibili capacità cognitive (si pensi al c.d. Community Consensus, generato dalla virtualizzazione dei processi umani di comunicazione da parte di Facebook), perché tutto sta nell’intendersi correttamente sul concetto di robotico e sull’interconnessione tra robotico e umano-, quel che quantomeno dovrebbe far riflettere, è l’inadeguatezza culturale della società rispetto a un passaggio tanto cruciale, che dovrebbe comunque avvenire, più prima che poi, senza una particolare geografia, ma per tutti e ovunque.
Nonostante la modernità sia pervasa a livello sistemico di robotica e virtualità, l’uomo mi pare ancora del tutto sprovvisto di una sovra-cultura del robot, e voglio dire sovra-cultura nel senso di dati meta-cognitivi, di tipo intellettuale ed esperenziale. Rispetto ad essa, direi anzi che, ad oggi, abbiano contribuito al tema soltanto alcune visionarie intuizioni letterarie (senza stare a citare Asimov) e cinematografiche, le quali, purtroppo, hanno performato un’idea di cultura robotica troppo spesso nella direzione dell’incognito o dell’ignoto. Si pensi in particolare alla figura di Hal in 2001 Odissea nello spazio di S. Kubrick o, facendo un salto indietro, agli scenari proto-apocalittici descritti da Lang in Metropolis, oppure all’idiosincrasia tra le dinamiche di finzione e realtà, come egregiamente supposta da R. Scott in Blade Runner.
Si tratta di anticipazioni culturali indubbiamente importanti, specie per una società in cui l’arte filmica assurge a paradigma culturale; ma comunque visioni che difettano, da un lato, di globalità, e, dall’altro, di dialettica. Nel senso che il dato cognitivo trasmesso è volutamente parziale, in quanto è estratto dal raffronto delle paure dell’uomo presente con le incognite di un mondo futuribile e altamente disumanizzato; ed inevitabilmente l’osservatore riversa sul dato acquisito le proprie personali inquietudini, con una sorta di effetto Matrix, un dilemma incentrato su quale pillola ingerire: a) continuare a vivere piantati in un presente liquefatto e insensibile oppure b) proiettarsi verso un futuro tanto automizzato da rendere indecifrabile la distinzione tra umanità e realtà?
Sotto altro aspetto, invece, si tratta di proiezioni culturali unidirezionali e prive di dialettica interna. Ogni autore ha offerto una propria visione, e non d’insieme, cogliendo un micro-segmento dell’ipotetica realtà robotica, senza porsi neppure il problema di una reductio ad unum delle singole prospettive. Ma questo semplicemente perché all’arte non appartiene questa finalità “palingenetica”; anzi, il contrario, essa deve tendere a frammentare più che de-frammentare, un compito quest’ultimo a cui attende invece più propriamente il filosofo, il giurista, il sociologo: l’umanista per intenderci. Da questa prospettiva, assai apprezzabili allora sono gli sforzo di J.Cameron, in Aliens, e J. Carpenter, in 1997: Fuga da New York. Il primo, che si preoccupa di dare una storia al rapporto tra xenomorfo e uomo, sceglie di umanizzare Bishop, a cui fornisce una sovra-cultura robotica sua propria, a differenza dell’androide di Alien diretto da R. Scott. Il secondo, invece, erige un muro tra uomo e uomo, facendo fuori qualunque rilevanza al robot.
Per contro, non dovremo aspettarci dalla scienza tecnica alcuna anticipazione o proiezione concettuale sulle influenze che deriveranno dall’emergere del robot quale soggetto a tutto tondo, e protagonista del vivere sociale al pari dell’uomo.
E mi riferisco al fatto che, come già sottolineato da alcuni, le ideazioni della tecnica, specie in ambito informatico, raramente si mantengono fedeli nei propositi e nelle funzioni alle intenzioni dei loro ideatori. Anzi, molto più spesso accade il contrario. E cioè che un certo progresso tecnico – quale ad esempio furono internet e i dispositivi radiofonici -, una volta che si sia inserito nel processo sociale, ne venga a trovarsi, quasi irrinunciabilmente direi, alterato, modificato dalle potenziali altre funzioni e utilità che di esso l’uomo riesca a trarne.
Neppure dovremmo, a mio avviso, preoccuparci di preparare culturalmente l’uomo ad imparare a coesistere col robot, o meglio a coesistere con l’idea o il complesso edipico che dir si voglia, che il robot lo sostituirà in gran parte e forse tutte le sue attività materiali e intellettuali.
Piuttosto, occorrerebbe costruire una cultura del robot a partire dal robot, da un lato, per evitare che tra le due figure si crei una sorta di rapporto di genere a specie; e, dall’altro, per avviare l’uomo verso una nuova e radicalmente diversa stagione dei rapporti sociali, in cui il senso di libertà dell’agire e di responsabilità dell’azione sarà fortemente condizionato dall’interazione alla pari con il robot.
Voglio dire, non si tratterà di capire “come” investiremo il nostro tempo della vita quando gran parte del lavoro e delle attività in genere sarà eseguito dal Robot; ma piuttosto di cercare il “perché” investire il tempo: è probabile che il significato stesso della parola libertà ne uscirà trasformato, e con esso quello di responsabilità.