Le due recenti sentenze (rispettivamente contro Facebook Inc. e Facebook Irleand) con cui il Tar Lazio ha in parte confermato e in parte annullato il provvedimento dell’AGCM che aveva sanzionato nel 2018 Facebook per pratiche commerciali scorrette assumono un notevole rilievo nel dibattito sviluppatosi da qualche tempo sulla valorizzazione economica dei dati personali.
Prima dell’estate il bel libro di Antonio Nicita e Marco Dalmastro, “Big data. Come stanno cambiando il nostro mondo” aveva giustappunto evidenziato che
“oggi si potrebbe dire: ‘noi valiamo’, (anche) perché i nostri dati valgono. Per due ragioni su tutte: (a) perché i dati permettono di profilare la nostra domanda individuale di consumo di servizi e prodotti, rendendo assai efficaci forme di pubblicità e di commercializzazione personalizzata,
aumentando la probabilità di vendita; (b) perché i dati permettono agli algoritmi di migliorare sé stessi, man mano che nuovi dati sono analizzati e di stimare, così, la domanda aggregata o media di consumo di servizi e prodotti, indicando in tempi assai rapidi le evoluzioni delle preferenze, i bisogni del mercato, le opportunità di investimento e di innovazione e così via. Il valore dei dati, cioè, aumenta con il loro volume e la loro varietà. E quindi per aumentare il valore dei dati il mercato e l’industria si sono evoluti con modelli di business nuovi, in modo tale da stimolare in ciascuno di noi la massima intensità di rivelazione di dati. Come? Con l’avvento del paradigma del free, che nella lingua inglese significa libero, ma anche gratuito. Una straordinaria combinazione semantica che tuttavia alimenta, e non poco, la confusione sul concetto di libertà di scelta… (omissis) … Lo scambio implicito, per tutta questa gratuità di servizi, è con la nostra attenzione, con il rilascio di dati che permetteranno promozioni personalizzate per i nostri bisogni. A questo scambio implicito corrisponde un mercato implicito, quello dei dati, del quale
sappiamo ancora troppo poco”.
A riprova di quanto sopra, un’indagine dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha analizzato un dataset su oltre un milione di applicazioni presenti su Google Store, mostrando, con un’analisi econometrica, come le App gratuite richiedano la cessione di un numero significativamente maggiore di dati individuali rispetto a quelle a pagamento. Nel caso delle app gratuite, vengono cioè richiesti permessi sul rilascio di dati ultronei, dati, cioè, che non incidono sul funzionamento in sé del servizio (come quando una “torcia” ci chiede accesso all’agenda, alla posizione, alla telecamera presenti nel nostro smartphone).
Sul punto, si rivela di particolare interesse anche la lettura del primo Osservatorio sulle piattaforme online dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) pubblicato a fine dicembre 2019, che analizza l’economia delle piattaforme online e il valore economico dei dati degli utenti ivi presenti.
Dunque il free di molti servizi online non è libero, perché condizionato ad uno scambio, e non è gratuito perché pagato con i nostri dati.
Ed è proprio quest’ultima affermazione che trova ampio riscontro nelle sentenze in commento.
Per comprenderne il contenuto, tuttavia, occorre prendere le mosse dal fatto che Facebook si era difesa dinanzi al giudice amministrativo affermando la carenza di potere dell’Agcm, poiché il servizio da lei fornito mancava di un corrispettivo patrimoniale e, quindi, di un interesse economico dei consumatori da tutelare.
Il Tar è stato di diverso avviso, ritenendo che i dati personali possono costituire un “asset” disponibile in senso negoziale, suscettibile di sfruttamento economico e, quindi, idoneo ad assurgere alla funzione di “controprestazione” in senso tecnico di un contratto.
“A fronte della tutela del dato personale quale espressione di un diritto della personalità dell’individuo, e come tale soggetto a specifiche e non rinunciabili forme di protezione, quali il diritto di revoca del consenso, di accesso, rettifica, oblio”, si legge nella sentenza “sussiste pure un diverso campo di protezione del dato stesso, inteso quale possibile oggetto di una compravendita, posta in essere sia tra gli operatori del mercato che tra questi e i soggetti interessati. Il fenomeno della “patrimonializzazione” del dato personale, tipico delle nuove economie dei mercati digitali, impone agli operatori di rispettare, nelle relative transazioni commerciali, quegli obblighi di chiarezza, completezza e non ingannevolezza delle informazioni previsti dalla legislazione a protezione del consumatore, che deve essere reso edotto dello scambio di prestazioni che è sotteso alla adesione ad un contratto per la fruizione di un servizio, quale è quello di utilizzo di un social network”.
I dati degli utenti assumono, dunque, un’indubbia rilevanza economica in quanto la loro condivisione consente al professionista di migliorare la propria attività di advertising.
Da diversi anni, infatti, sono attive sul mercato piattaforme che permettono al consumatore di valorizzare economicamente la cessione dei propri dati personali: Datacoup, ad esempio, offre fino ad otto dollari al mese, dunque 96 dollari l’anno, pari a circa 83 euro.
La prova dell’esistenza di un mercato virtuale dei dati personali è data, altresì, dallo sviluppo di applicazioni (ad esempio Wibson) che consentono non soltanto di monetizzare, ma di negoziare a titolo oneroso, anche sulla piattaforma Facebook, le proprie informazioni personali e riservate (https://wibson.org).
A tal proposito si segnala che uno studente olandese, Shawn Buckles, nel 2014 ha venduto tutti i suoi dati personali per 350 euro al sito Web The Next Web ( https://www.wired.co.uk/article/shawn-buckles-is-worth-350-euros).
Vi è, in buona sostanza, un indiscutibile valore economico del dato personale e, conseguentemente, una possibilità di monetizzazione dello stesso da parte del soggetto che ne ha la titolarità.
Stando così le cose, la raccolta dei dati personali beneficia non solo delle tutele accordate dalla normativa di settore, ma altresì di quelle dettate dal codice del consumo, non sussistendo alcuna incompatibilità o antinomia tra le predette previsioni, in quanto le stesse si pongono in termini di complementarietà, imponendo, in relazione ai rispettivi fini di tutela, obblighi informativi specifici, in un caso funzionali alla protezione del dato personale, inteso quale diritto fondamentale della personalità, e nell’altro alla corretta informazione da fornire al consumatore al fine di fargli assumere una scelta economica consapevole.